Ogni anno, la prestigiosa American Physical Society (APS) stila un elenco dei più importanti articoli pubblicati nelle riviste di cui è editrice. Per il 2016, la palma del migliore se l’è aggiudicata – come poteva essere altrimenti – la scoperta delle onde gravitazionali da parte dell’interferometro LIGO. Gli altri articoli sono stati scelti in quanto, secondo gli editori dell’APS, descrivono ricerche “che hanno segnato un cambiamento di prospettiva, hanno dimostrato un impressionante talento sperimentale, o semplicemente ci hanno fatto pensare”.
Scorrendo questo elenco, al terzo posto troviamo un articolo a firma di Stephen Hawking, Malcom Perry e Andrew Strominger, sul cosiddetto “problema dell’informazione” nei buchi neri, apparso nel giugno 2016 sulla rivista Physical Review Letters. Per capire di cosa si tratta è opportuno riassumere brevemente i principali risultati ottenuti nello studio di questi affascinanti mostri del cielo.
Sebbene il termine ‘buco nero’ sia apparso per la prima volta in un articolo di John Wheeler (paternità alquanto sofferta: il termine fu considerato osceno dall’editore della rivista, che, per tale motivo, inizialmente rifiutò l’articolo), di un corpo di massa tale che la velocità di fuga dal suo campo gravitazionale sia maggiore di quella della luce, ne parlarono per la prima volta John Michell e Pierre Laplace alla fine del ‘700.
La Relatività Generale di Einstein stabilisce che un buco nero stazionario è completamente definito da tre soli parametri: la massa, la carica elettrica e il momento angolare. Questa circostanza fu descritta da Wheeler con lo slogan “i buchi neri sono senza peli” (immaginate la faccia del solito editore quando si vide recapitare un articolo dove Wheeler – ancora lui – affermava che il buco oltre che nero era anche ‘depilato’), ed ha un’implicazione profonda: l’informazione che finisce all’interno di un buco nero risulta invisibile all’esterno. Quando una stella collassa a formare un buco nero, informazioni quali forma e composizione della stella sono perse nel processo.
La rivoluzione nel campo della fisica dei buchi neri avviene intorno alla metà degli anni ’70 ed è innescata da due risultati sconcertanti. Il primo è dovuto a Jacob Bekenstein, che dimostra che un buco nero possiede un’entropia il cui valore è proporzionale all’area del suo orizzonte degli eventi (la superficie all’interno del quale l’informazione è nascosta). Ma se c’è un’entropia deve esserci una temperatura. Questa intuizione venne confermata, nel 1975, da Hawking che, studiando il comportamento dei campi quantistici in prossimità dell’orizzonte, dimostrò che da esso emerge una radiazione approssimativamente termica – la radiazione di Hawking –, allo stesso modo in cui un oggetto caldo emette calore. La formula di Hawking per la temperatura della radiazione è da considerarsi come il singolo risultato più importante che connette i principi della Meccanica Quantistica e della Relatività Generale. Forse il primo passo verso il sacro graal della fisica contemporanea: la gravità quantistica.
Dunque, i buchi neri non sono poi così neri e, soprattutto, se nulla ci cade dentro, l’energia persa attraverso questa “radiazione di Hawking” si tradurrà in una progressiva riduzione della massa del buco nero, fino alla sua completa evaporazione. E che cosa succede di tutta l’informazione immagazzinata all’interno dell’orizzonte? Secondo Hawking, andava perduta: una conclusione incompatibile con le leggi della meccanica quantistica, secondo le quali l’informazione è sempre conservata.
Si giunse così agli anni ’90, quando alcuni sviluppi in teoria delle stringhe, autorizzarono alcuni teorici, tra cui il premio Nobel Gerard ‘t Hooft e Leonard Susskind, a contestare la conclusione di Hawking e a dare inizio alla controversia che è passata alla storia come “la guerra dei buchi neri”. (I dettagli di questa guerra sono descritti in un bel libro divulgativo di Susskind, tradotto in italiano da Adelphi). Secondo questi teorici, tutta l’informazione che cade in un buco nero ne riemerge quando esso evapora, e la Meccanica Quantistica è salva. Come ciò avvenga, però, non è ancora chiaro.
Con il loro articolo, Hawking, Perry e Strominger, aggiungono un altro tassello alla discussione sul problema dell’informazione, mostrando che l’assunzione dell’assenza di ‘peli’ potrebbe essere ingiustificata. Discutendo le proprietà quantistiche di un campo elettromagnetico in prossimità dell’orizzonte di un buco nero, dimostrano che esso emette un numero infinito di fotoni di energia essenzialmente nulla. Questi fotoni sono i ‘peli morbidi’ (soft hair) del buco nero, che vengono eccitati quando una particella carica cade dentro il buco nero.
L’analisi è stata limitata al solo campo elettromagnetico e necessita di essere replicata nel caso della gravità. Gli autori stanno lavorando a questo problema e dai primi calcoli sembra che questo risultato sia estendibile all’interazione gravitazionale. Ciò che non è ancora chiaro è se tutta l’informazione o solo parte viene catturata da questa ‘peluria’ che spunta dall’orizzonte del buco nero.
Ai fini del problema dell’informazione nei buchi neri, l’articolo non è risolutivo. Quasi certamente, però, indica una promettente direzione lungo cui esplorare.
L’articolo di Hawking, Perry e Strominger è liberamente disponibile al link. (Danilo Babusci)